Dipendenza alimentare: come liberarsene
In un recente articolo dal titolo Fattori che condizionano le nostre scelte alimentari, ho accennato al tema della dipendenza alimentare, un argomento che oggi vorrei approfondire. Si tratta di un meccanismo non dissimile da altre dipendenze – dal fumo, dall’alcol, dal gioco, dalla droga, da tutto quello che ci toglie la libertà di scegliere.
La dipendenza è legata al meccanismo della gratificazione. La parte del cervello situata al di sotto della corteccia gestisce il sistema della ricompensa per promuovere certi comportamenti utili alla conservazione della specie. Mangiare determinati alimenti procura una sensazione di benessere perché induce la produzione di dopamina, stimolando la ripetizione di tale azione. Così facendo l’uomo, nel corso della storia, ha potuto sopravvivere e riprodursi.
A questo scopo i nostri antenati (mi riferisco ai primi esemplari di Homo sapiens non ad altre specie di ominidi, ben distinte dalla nostra) hanno sviluppato raffinati meccanismi di riconoscimento dei cibi con una maggiore concentrazione di nutrienti, in particolare quelli naturalmente ricchi di zuccheri, sale e grassi. Perché proprio queste tre sostanze? Lo zucchero fornisce una sorgente di energia prontamente disponibile, il sale è un regolatore della pressione sanguigna che ci consente di mantenere una posizione eretta, infine la presenza di grassi è indice di una fonte concentrata di energia che permette di superare più agevolmente lunghi periodi di carestia.
Oggi non siamo più abituati a pensare in termini di eventuali carestie, almeno nel mondo occidentale, ma dobbiamo riferirci alle condizioni in cui vivevano i nostri antenati. Loro infatti non mangiavano tutti i giorni ma alternavano periodi in cui c’era una certa disponibilità di cibo ad altri di carenza alimentare, durante i quali vivevano di rendita di quanto avevano accumulato in precedenza. Se, per esempio, una battuta di caccia aveva successo, per alcuni giorni o settimane c’era cibo in abbondanza, poi però si doveva attendere quella successiva e nel frattempo accontentarsi di bacche, radici, foglie, fiori selvatici che la natura offriva a seconda delle stagioni. Solo all’incirca diecimila anni fa sono comparse le prime comunità stanziali e l’uomo ha iniziato a coltivare cereali e allevare animali, che gli fornivano carne e latte. Si trattava tuttavia di agricoltura e allevamento di sussistenza, c’erano periodi di carestia, durante l’inverno c’era poco cibo. Le cose sono fortemente cambiate dalla rivoluzione industriale in avanti, avvenuta circa due secoli fa, e in maniera ancora più drastica dal secondo dopoguerra del secolo scorso ai giorni nostri. Si è passati a modalità intensive di agricoltura e allevamento ed è aumentato in maniera considerevole il consumo di cibi raffinati e trasformati dall’industria, molto più poveri in termini nutrizionali.
Mentre i cibi naturali sono ben equilibrati nel contenuto di sale, zuccheri e grassi, quelli che oggi fornisce l’industria sono invece eccessivamente ricchi di queste sostanze, oltre ad essere raffinati e quindi privi o carenti di fibre, vitamine, minerali, cioè di quell’insieme di sostanze che formano una sinergia perfetta nell’alimento naturale e lo rendono ben riconoscibile ed utilizzabile dal nostro apparato digerente. Abbiamo quindi una grande disponibilità di cibo ricco di calorie e povero di nutrienti.
La porzione cerebrale che regola i meccanismi della ricompensa è pressoché identica rispetto a quella dei primi uomini apparsi sulla terra, sebbene le condizioni di vita siano profondamente cambiate. Essa continua a regolare l’assunzione di cibo secondo gli stessi parametri che utilizzava per i nostri antenati, inducendo a riempirsi istintivamente del cibo disponibile in previsione di una futura carestia che potrebbe sopraggiungere da un momento all’altro. Ecco allora che l’uomo moderno vive immerso nello zucchero, nel sale e nei grassi manipolati che trova senza alcuno sforzo (l’industria alimentare conosce bene questi meccanismi e propone prodotti ricchi di tali sostanze) creando continui picchi glicemici che rafforzano la dipendenza da alimenti che li contengono. Così facendo il nostro sistema sensoriale, che naturalmente ci spingerebbe verso ciò che più si addice alla nostra fisiologia, viene sopito e ingannato da un eccesso di stimoli, non riuscendo più a farci cogliere la differenza tra il cibo “finto” e quello che, oltre ad essere buono al gusto lo è anche per la nostra salute. Gli alimenti naturali sembrano privi di sapore per chi è abituato ai prodotti della grande distribuzione.
Il risultato è un progressivo accumulo di peso che non viene smaltito, perché l’uomo del presente è anche molto più sedentario di un tempo, e la tendenza a creare uno stato di disbiosi intestinale e infiammazione cronica che è la base di molte malattie croniche e degenerative della nostra epoca.
Oltre alla parte del cervello che regola i meccanismi della ricompensa c’è anche la corteccia prefrontale a fare da contrappeso. È la porzione dell’encefalo addetta a prevedere e valutare le conseguenze di un’azione. Essa comprende e analizza la situazione da un punto di vista razionale, tiene conto delle tabelle nutrizionali, delle calorie, dei consigli suggeriti dai vari esperti. Tuttavia, quando si instaura una condizione di dipendenza tende a predominare il sistema della gratificazione e passa in secondo piano la valutazione della corteccia prefrontale. È la ragione per cui spesso, pur sapendo cosa fa bene e cosa fa male, si continua a perseverare con abitudini poco funzionali alla salute.
Come fare allora per uscire da questo circolo vizioso? Prima di tutto è necessario ripulire il corpo dagli eccessi che si sono accumulati e recuperare quei segnali della nostra biologia autentica che ci fanno riconoscere e apprezzare il sapore del cibo vero, naturale, quell’istinto che di fronte ad una merendina piena di zucchero e grassi idrogenati ci fa reagire respingendola perché sa, sente che non si addice alla nostra fisiologia. È un allenamento del palato e dei sensi che va fatto giorno dopo giorno, con pazienza e disciplina, come quando ci si libera da una droga. In effetti i meccanismi coinvolti sono gli stessi. Una volta disintossicato l’organismo e rieducato il gusto verrà spontaneo riconoscere e apprezzare il cibo buono e salutare, poiché le due cose non sono in contrapposizione.
Dobbiamo poi valutare se quel cibo dal quale si è diventati dipendenti viene usato per colmare un vuoto, per non ascoltare un dolore, una frustrazione o un altro bisogno. Spesso infatti non mangiamo per rispondere alla fame fisiologica ma usiamo l’alimento come riempitivo mossi da una fame nervosa. Purtroppo quando siamo fragili emotivamente siamo ancora di più attratti dal cibo dolce, salato, grasso, artificiale, percependolo come una coccola che allevia momentaneamente il dolore sebbene nasconda un risvolto assai amaro. Di questo aspetto e di altre tecniche o atteggiamenti utili a recuperare un sano rapporto con il cibo ho già parlato nell’articolo citato sopra.
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