Fattori che condizionano le nostre scelte alimentari

Fattori che condizionano le nostre scelte alimentari

Incontro spesso persone che vorrebbero perdere peso o cambiare il rapporto malsano che hanno con il cibo ma non riescono, nonostante i ripetuti sforzi.

 

Ci hanno provato tante volte, hanno consultato vari specialisti nel settore, sanno ormai cosa dovrebbero fare ma dopo un iniziale periodo di relativo successo ripiombano presto o tardi nelle vecchie abitudini disfunzionali. Perché?

 

È difficile cambiare abitudini spesso consolidate da tempo perché numerosi sono i fattori che influenzano le nostre scelte alimentari. Sicuramente tutto parte dalla testa, dalla comprensione razionale e dalla volontà ma a volte questo non è sufficiente poiché le nostre scelte e i nostri gusti sono influenzati da numerosi altri fattori. Vediamoli insieme.

 

Istinto: non dipende dall’educazione, è un programma che è scritto nel codice genetico e non è soggetto alle forze dell’evoluzione. Se seguissimo l’istinto sceglieremmo il cibo adatto a noi, buono al gusto e benefico per la nostra salute. Gli animali che vivono liberi nella natura sanno naturalmente riconoscere il cibo adatto alla loro specie. È la ragione per cui non esistono in natura animali obesi. Lo sono invece, o lo possono diventare, gli animali domestici mal nutriti (pensiamo al gatto o al cane allevati a crocchette) che tendono a sviluppare le stesse patologie che affliggono l’uomo moderno. Allo stesso modo, il bambino appena nato cerca istintivamente il seno della madre, non gliel’ha insegnato nessuno eppure lo sa. Il latte materno è l’alimento che la natura ha predisposto per lui. Crescendo, il bambino apprende degli atteggiamenti che sono il frutto dell’imitazione degli adulti e dell’insegnamento che riceve, sono quindi dei condizionamenti che ingannano la sua parte istintuale e diventeranno nel tempo dei comportamenti automatici. Per esempio, se quando piange gli viene data una caramella, continuerà da adulto a cercare il dolce ogni volta che si sentirà male.

 

Cosa ha mangiato la mamma durante la gravidanza e l’allattamento: oltre all’eredità genetica esiste un’eredità epigenetica, basata sulla trasmissione di micro RNA, ormoni, neurotrasmettitori, microrganismi che influenzano i gusti del nascituro.

 

Condizionamenti sociali: le nostre scelte da adulti dipendono fortemente da ciò che abbiamo mangiato da piccoli, dove siamo nati, l’istruzione che abbiamo ricevuto, le tradizioni familiari e della società in cui viviamo. L’uomo ha bisogno di sentirsi parte di un gruppo, ha bisogno di appartenenza, di essere come gli altri. Spesso assimila le abitudini di chi ha intorno senza chiedersi come e quando siano nate e soprattutto se siano funzionali al suo benessere.

 

Stati di carenza: se ci sono carenze il corpo chiede cibo per cercare di colmarle. Le carenze possono dipendere da un apporto alimentare inadeguato in termini di qualità e quantità, da malassorbimento intestinale, da uno stato patologico.

 

Composizione del microbiota intestinale: è costituito da miliardi di microrganismi tra i quali batteri, lieviti, funghi e virus. Nell’insieme formano un sopra-organismo che vive in simbiosi con l’uomo, cioè in un rapporto di convivenza da cui entrambi traggono beneficio. L’uomo fornisce sostentamento ai microrganismi, in compenso essi svolgono varie funzioni utili all’ospite. Quando la flora batterica e l’organismo umano vivono in perfetta armonia si parla di eubiosi (vita buona), se invece c’è disequilibrio si è in uno stato di disbiosi (vita cattiva). Nel secondo caso, cioè quando alcune specie proliferano a dismisura e prendono il sopravvento sulle altre, vi sono molte ripercussioni sulla salute e sulle scelte alimentari che l’ospite è indotto a fare. Anche i microrganismi infatti hanno le loro preferenze. Se ad esempio c’è una sovra-proliferazione di Candida albicans, ghiotta di zuccheri, il desiderio di cibo dolce dell’ospite sarà irrefrenabile.

 

Dipendenza fisica: alcuni alimenti, per esempio quelli ricchi di zuccheri o sale, inducono una vera e propria dipendenza fisica andando ad agire sui centri del piacere e liberando molecole come la dopamina che producono uno stato di benessere, sebbene transitorio. Nel tentativo di ricreare quella condizione di appagamento si attiva uno stato di dipendenza. Se a questo si aggiungono i picchi glicemici e insulinici indotti da un eccesso di determinati alimenti si entra in un pericoloso circolo vizioso con effetti nefasti per la salute. La dipendenza fisica deriva anche da sostanze chimiche studiate a tale scopo, presenti soprattutto nel cibo industriale.

 

Le emozioni condizionano le nostre scelte alimentari: vi è mai capitato di tornare a casa dopo una giornata difficile al lavoro o dopo un litigio e di sfogare la vostra rabbia con un gelato, un pacco di biscotti o del cioccolato? Ciò che spinge a compiere queste scelte non è la fame fisiologica, dovuta all’esaurimento dell’energia fisica, ma la fame nervosa, quel meccanismo che si attiva ogni volta che stress e preoccupazioni prendono il sopravvento e per ritrovare un po’ di serenità si cerca sollievo negli “alimenti coccola”. Spesso infatti si usa il cibo come riempitivo per colmare altri bisogni, di affetto, considerazione, cura, attenzione, eccetera. Purtroppo il cibo verso il quale ci dirigiamo in questi casi è proprio quello che crea dipendenza, sia fisica che psicologica. Immaginiamo una situazione di questo tipo: una persona mangia dolci perché si sente triste. Momentaneamente le sembra di stare meglio per il meccanismo descritto sopra ma il picco glicemico che si è generato la induce a cercare altro zucchero, rafforzando la dipendenza. A lungo andare si crea una disbiosi intestinale che avrà portato a selezionare microrganismi che chiedono continuamente zuccheri. La disbiosi apre le porte alla permeabilità intestinale e all’infiammazione, anche a livello cerebrale, poiché esiste un legame bidirezionale tra intestino e cervello. Aumentano ansia e depressione che spingono a cercare altri dolci. Si è creato così un meccanismo distruttivo che si auto-mantiene.

 

Convinzioni: se una persona è convinta che un alimento le faccia male sarà così, anche se quel cibo in sé potrebbe essere buono per lei. È il cosiddetto effetto nocebo. Immaginiamo, per esempio, che una persona che segue un’alimentazione vegana si costringa a mangiare alimenti di origine animale perché le è stato detto che ne ha bisogno. Se per lei quel cibo è veleno è probabile che questo sia proprio l’effetto che avrà nel suo corpo.

 

Rapporto con la spiritualità: ho lasciato questo punto per ultimo ma non per importanza, anzi, ritengo che tutto parta da qui, dall’avere dimenticato che non siamo fatti di solo corpo ma abbiamo anche un’anima, una parte spirituale che ha bisogno di un cibo diverso da quello fisico. L’uomo dell’antichità se stava male si rivolgeva a Dio, era pronto ad alleggerire la sua alimentazione e anche a digiunare per avvicinarsi al divino. L’uomo moderno, assai più materialista, cerca prima di tutto il piacere dei sensi, fa fatica a rinunciare al cibo, a scegliere un’alimentazione essenziale per facilitare l’introspezione. Se lo fa, se si mette “a dieta”, è mosso essenzialmente dall’idea di curare il corpo, mentre l’uomo religioso di un tempo digiunava per curare lo spirito.

 

Alla luce di tutto questo come si fa a curare un rapporto malsano con l’alimentazione? È possibile? Certo, è possibile ma serve agire su tutti questi aspetti o almeno alcuni di essi. Non basta fare una scelta razionale, sapere cosa fa bene, cosa fa male e tutte le proprietà nutrizionali degli alimenti dal punto di vista biochimico. Quello è “solo” il primo passo, fondamentale ma non sufficiente.

 

Da dove incominciare?

Decidere di volere cambiare qualcosa: sicuramente il cambio di regime alimentare parte dalla testa, dalla comprensione razionale del perché quel cambiamento è necessario. Se manca tale consapevolezza, cioè se viene applicato un protocollo solo perché lo ha detto il medico, il nutrizionista o il dietista, è molto probabile che venga abbandonato in fretta o applicato male e verrà vissuto come una rinuncia o una punizione, uno stato d’animo che già di per sé è auto-sabotante.

 

Auto-osservazione: è utile per rendersi conto dei comportamenti disfunzionali e acquisire consapevolezza. Aiuta a mettere distanza, sia fisica che temporale, tra sé e il cibo e porsi una domanda, ovvero che cosa si cerca nel cibo. Di fronte ad un alimento che sappiamo non essere per noi ma desideriamo tanto, ci fermiamo e ci chiediamo “perché lo voglio? Ho veramente fame o sto cercando di colmare un altro bisogno? Cerco forse affetto, dolcezza, comprensione, ascolto? Se è così, c’è un altro modo per farlo?

 

Sostituire il cibo con un’altra attività che dia piacere: anziché mangiare si può scegliere di praticare uno sport che piace, vedere amici, leggere un libro, fare giardinaggio, pregare, eccetera.

 

Procedere per sostituzione o per aggiunta anziché per eliminazione: come si potrebbe sostituire quell’alimento con qualcosa di buono che ci è più amico? In questo caso si fa una sostituzione a noi favorevole oppure si può decidere di mangiare prima il cibo “sano” che ci fa bene, poi il resto se ne avremo voglia.

 

Procedere con gradualità: essendo la mente umana pigra e restia al cambiamento in genere non ama i cambiamenti drastici, preferisce andare per gradi.

 

Fitoterapia: possono venire in aiuto alcune piante che agiscono placando l’incontrollata ricerca del cibo, agendo su alcuni degli aspetti che la scatenano.

 

Idrologia: bagno caldo, sauna, hammam, placano la fame nervosa perché il corpo si rilassa.

 

Preghiera: quando ci rendiamo conto che non siamo fatti di solo corpo cerchiamo anche un altro tipo di nutrimento, quello spirituale. È importante recuperare la dimensione spirituale, è da lì che nasce il rispetto per il proprio corpo in quanto creazione di Dio.

 

Se desiderate approfondire questo argomento ne ho parlato in una conferenza organizzata da Anima Edizioni.

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