Cibo ed emozioni: siamo più di quello che mangiamo

Cibo ed emozioni: un legame imprescindibile

In genere, quando si parla di nutrizione si fa riferimento al cibo inteso dal punto di vista materiale, cioè un insieme di macro e micronutrienti che il corpo utilizza per compiere tutti i suoi processi vitali.

 

Questo è in realtà solo un aspetto da considerare, ce ne sono altri non meno importanti. Il fatto di attribuirgli pressoché tutta la nostra attenzione nasce dall’idea che l’essere umano si possa da un certo punto di vista assimilare ad una macchina: se gli diamo il carburante giusto, tutto funzionerà bene.

 

Imparare a riconoscere il cibo “fisico” adatto a noi, che ci fa bene, è senz’altro il primo passo fondamentale, imprescindibile per stare bene, ma a volte non basta, per diverse ragioni.

 

La prima è che noi siamo esseri complessi, non siamo macchine. Considerare l’organismo umano come una macchina è fortemente riduttivo. Risente della visione meccanicista e riduzionista che ha permeato la scienza negli ultimi secoli, influenzando anche la biologia e la medicina. Abbiamo un corpo fisico, certo, ma anche pensieri, emozioni, esperienze uniche di vita che condizionano ogni aspetto della nostra esistenza, incluse le scelte alimentari che compiamo quotidianamente. Il cibo è qualcosa di molto intimo, connotato di numerosi significati. È legato a come siamo stati svezzati da piccoli, a ciò che ha mangiato la nostra mamma durante la gravidanza e l’allattamento, ad abitudini in parte nostre e in parte assorbite da altri che ci portiamo dietro senza accorgercene e ripetiamo ogni giorno in maniera quasi automatica.

 

Il cibo quindi non è solo nutrimento per il corpo ma per altri nostri bisogni più o meno evidenti. Spesso lo usiamo come riempitivo, mangiamo per colmare un vuoto, un dolore, quando siamo stressati, stanchi, tristi, frustrati. In quei momenti non mangiamo per soddisfare la fame fisica, che spesso non siamo più nemmeno in grado di riconoscere, ma per rispondere ad un’esigenza diversa, più sottile, nascosta. Ecco perché a volte l’educazione alimentare, pur essendo necessaria, non basta per cambiare un comportamento disfunzionale, se tale cambiamento è basato solo sulla forza di volontà. Può andare bene all’inizio, ma è difficile da mantenere nel lungo periodo. Se un atteggiamento nocivo, come può essere un rapporto conflittuale con l’alimentazione, nasconde un bisogno emotivo che sta dietro, è su quello che bisogna lavorare prima di tutto o in parallelo.

 

Inoltre il condizionamento che riceviamo dall’esterno è enorme, più forte oggi di quanto non sia mai stato prima e anche questo è da tenere in considerazione. Non dobbiamo dimenticare che siamo un sistema aperto che scambia continuamente informazioni con l’esterno, cibo informazionale che plasma i nostri pensieri e la nostra psiche. Televisione, giornali, pubblicità, packaging allettante che quasi mai corrisponde al reale contenuto di una confezione, tutto ci spinge a comprare senza pensare se davvero vogliamo quel prodotto, se lo stiamo scegliendo per il nostro bene o perché ci serve. Acquistiamo come se fossimo sotto ipnosi. Sarà capitato anche a voi di andare a fare la spesa con una lista dei prodotti che mancano in dispensa e tornare a casa dopo averne comprati almeno il doppio. Questo modo di funzionare è assai deleterio sul lungo periodo perché finisce per appesantire il corpo e la vita di fardelli inutili, che poi ci fanno ammalare.

 

La consapevolezza, un termine tanto bello e ricco di significato quanto abusato oggi, è il primo passo per uscire da questa ruota che gira senza fine, per capire come funzioniamo e quindi cambiare. Se non so nemmeno come funziono come faccio a trasformare qualcosa? La consapevolezza parte dall’auto-osservazione e aiuta a mettere distanza tra noi e le tentazioni. Per esempio, di fronte ad un alimento che so non essere per me ma desidero tanto, mi fermo e mi chiedo: “perché lo voglio? Ho veramente fame o sto cercando di colmare un altro bisogno? C’è un altro modo per farlo?”. Magari scelgo di bere un bicchiere di acqua e poi decido se ho veramente fame, oppure vado a fare due passi e al ritorno penso che tutto sommato posso anche aspettare il pasto successivo senza fare quella merenda che fino a poco prima mi sembrava un’urgenza da soddisfare subito. Piccole astuzie apparentemente banali che però ci fanno prendere coscienza dei nostri comportamenti automatici. Questa tattica è utile soprattutto se c’è dipendenza da certi cibi, dai quali si fa fatica a staccarsi non solo perché creano una reale dipendenza fisica, ma anche perché il mondo là fuori ce li propone continuamente e ovunque in una maniera che stuzzica la nostra curiosità e bramosia. Si pensi a tutti prodotti pieni di zuccheri e conservanti di cui sono colmi i supermercati. Sono una vera e propria droga. Dobbiamo essere più forti e più furbi di chi ci tende il tranello.

 

Altra cosa importante è procedere a piccoli passi. Per alcuni funziona cambiare repentinamente, ma per la maggior parte delle persone non è così. In generale è difficile abbandonare un’abitudine perché c’è una resistenza da vincere e la volontà non basta. Serve un tempo di latenza per fare sedimentare le cose, per accogliere il cambiamento, per tranquillizzare quella parte di noi che è restia e pigra, vuole mantenere tutto com’è e cerca di convincerci che va bene così. Questo vale per tutti i cambiamenti che vogliamo attuare nella nostra vita, non solo quelli alimentari.

 

Un giorno una ragazza mi ha detto: “faccio tutto quello che mi dici ma ti prego non togliermi la colazione al bar”. Se avessi insistito l’avrei persa, avrebbe abbandonato anche quello che era pronta a fare in quel momento. Così abbiamo proceduto per gradi. Prima abbiamo scelto le cose migliori che avrebbe potuto prendere al bar. Poi abbiamo pensato ad una colazione a casa da “completare” al bar con qualcosa di piccolo. Successivamente abbiamo lavorato sulla frequenza settimanale. Insomma a poco a poco quell’appuntamento ha perso importanza ed è diventato occasionale in maniera quasi naturale, tra l’altro molto più apprezzato di prima quando oggi le capita di concedersi quella coccola.

 

C’è un ultimo suggerimento che vorrei lasciare oggi, per qualsiasi trasformazione si voglia attuare nella propria vita, alimentare e non solo: innamorarsi del processo, non del risultato. È una frase che, sotto varie forme, appartiene a tante tradizioni e filosofie antiche. Quando ci si innamora del processo il risultato non è più così importante perché la meta, l’obiettivo diventa il percorso stesso, è il fatto di essersi messi in azione nella giusta direzione. Sembra paradossale vero? Se una persona desidera per esempio perdere peso, come fa a non pensarci? Ma lì sta il segreto. Se se ne dimentica e si lascia assorbire da quello che sta facendo, abbandona l’idea della dieta come sacrificio, che né la mente né il corpo amano perché la sentono come una punizione, ha meno stress e si concentra sulla creazione di un metodo, uno stile di vita (che poi è il vero significato del termine “dieta”) che sarà suo per sempre.

 

Anziché cercare la perfezione, è meglio cercare l’armonia tra quello che si è pronti a fare oggi e l’obiettivo al quale si vuole tendere, consapevoli che questo processo porterà ad una più profonda conoscenza di se stessi ed è quello il vero risultato.

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